Del Piero, dov’è la notizia?

Roberto Beccantini19 ottobre 2011

Chiedo scusa, ma non ho capito: dov’è la notizia? Si sapeva che Alessandro Del Piero avrebbo lasciato la Juventus al termine dell’attuale stagione; Andrea Agnelli non ha fatto altro che ribadirlo – con applauso, davanti a Giampiero Boniperti – nel corso dell’assemblea degli azionisti. Lo aveva dichiarato, e scritto, lo stesso capitano. Per carità: Andrea avrebbe potuto scegliere un altro momento, ma è fatto così: gli piace «giraudeggiare», adora«marchionneggiare». Personalmente, trovo che il trattamento riservato ad Amauri (fuori rosa e fuori da tutto per aver osato esercitare un elementare diritto: rifiutare il Marsiglia, forte del contratto che lo lega ancora alla Juventus) sia stato molto più censurabile di questa uscita «delpieresca».

Alessandro sarà sempre della Juventus, e la Juventus sarà sempre, al di là dell’epilogo del rapporto, «anche» di Alessandro, come lo è stata di Omar Sivori, Giampiero Boniperti, Michel Platini, ritiratosi sul filo dei 32 anni, Gaetano Scirea, Beppe Furino. Il 9 novembre Del Piero compie 37 anni. Se il cuore reclama la sua razione di emozioni e sentimenti, bisogna stare attenti a non cadere nel buonismo sdolcinato delle bandiere vilipese e calpestate. Calma. Raul e il Real si sono separati in attesa di riprendere un percorso comune. Per entrare nella storia, bisogna uscire dalla cronaca: Del Piero, che nella storia – della Juventus e del calcio – ha prenotato un posto da tempo – lo sa.

All’italiano piace guardare il dito, non la luna. Il dito è la non notizia di Andrea. La luna è molto più complessa: nell’estate del 1995, quando venne comunicato, non già all’assemblea degli azionisti, ma a un’assemblea di tifosi, che Roberto Baggio sarebbe stato piazzato al Milan, la Triade aveva pronto Del Piero. Nell’autunno del 2011, dopo la conferma che Del Piero chiuderà nel giugno 2012, la Biade (Agnelli & Marotta) chi ha pronto?

Juve, magari fossero tutti Milan

Roberto Beccantini4 ottobre 2011

Impossibile non celebrare la Juventus che ha sconfitto il Milan; e anche il suo fioretto, non la solita, giurassica, clava. Attenzione, però. Non sono i campioni di turno a fornire il peso netto della squadra bianconera. Sono i Chievo e i Catania, i Palermo e i Napoli. In sintesi, il ceto medio-alto. Non l’aristocrazia. Basta sfogliare i campionati post Calciopoli.

Da Claudio Ranieri ad Antonio Conte, il bilancio con le tre Grandi resta attivo: 3 vittorie, 3 pareggi, 2 sconfitte con l’Inter; 4 vittorie, 2 pareggi, 3 sconfitte con il Milan; 5 vittorie, 2 pareggi, 1 sconfitta con la Roma.

I problemi sono il Napoli, con il quale la Juve ha sempro perso al San Paolo (4 su 4), e il Palermo, capace di infliggerle tre schiaffoni consecutivi a Torino. I problemi sono (furono) gli sperperi con Cesena, Catania e Chievo (da 2-0 a 2-2). A proposito di Milan: nel girone d’andata dell’ultimo campionato, la Juventus di Del Neri il Milan lo aveva battuto addirittura a San Siro, per 2-1. E non era certo un Diavolo così mansueto.

Se l’espulsione di Vucinic spiega il pareggio casalingo con il Bologna, come giustificare la tremarella di Catania? Con il valore dell’avversario, certo, ma la Juve è la Juve, o almeno così dovrebbe essere. O no? O non ancora? Ecco: incassate le iperboli e disperso l’incenso che sempre accompagnano le cene degli affamati, e Dio sa quanto Andrea Agnelli lo sia, Conte deve togliere l’ultima maschera a questa «Signorina» grande con le grandi e piccola con le piccole. Nella serie A a venti squadre, i confronti diretti non incidono come una volta. Decidono, sempre più, le sfide indirette. Non basta sprigionare l’orgoglio represso. Urge una personalità che sappia accendere il gioco. Con gli attributi, servono gli argomenti. La Juve che fa la provinciale contro i padroni, deve tornare padrona contro le provinciali.

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In ginocchio da Bielsa

Roberto Beccantini16 giugno 2011

Non dubito che Marcelo Bielsa sia un buon allenatore tendente (qualche volta) all’ottimo. Vivacchiava ai margini del nostro lubrìco suk da tempo immemorabile, ma questo, ça va sans dire, non è e non può essere una colpa. Quello che ho trovato francamente sgradevole è l’improvviso inchino dei media italiani non appena il suo nome è stato affiancato a quello dell’Inter.

Poche righe sull’esclusione della sua Argentina fin dal primo turno del rodeo nippo-coreano del 2002 (nonostante un attacco che poteva contare su Gabriel Batistuta e Hernan Crespo); ripeto, al primo turno. E l’avventura africana del suo Cile, schiantatosi contro il Brasile già negli ottavi, celebrata come un’epopea.

L’autopsia del suo 3-3-1-3 ha portato alla luce, in televisione e sui giornali, iperboli, superlativi, orgasmi. Salvo leggere o sentire che, in fase difensiva, arretra i due esterni per proteggere i fianchi dei tre centrali. Wao.

Dicono che abbia rifiutato l’offerta di Massimo Moratti e preferito l’Athletic Bilbao. Fossi negli interisti, ci riderei su. E sorriderei anche di fronte alle note e ai ritornelli impiegati dalla stampa, di regime e non, per cantare le lodi di questo «genio» eccentrico e maniacale. Un tizio che si è fatto costruire un campo di calcio a casa sua e, se gli viene l’ispirazione, usa familiari e famigli come giocatori. Il pensiero corre, leggero e soave, al Fantozzi della «Corazzata Potemkin». Nel dettaglio, a come liquidò, solo contro tutti, il capolavoro di Sergej Ejzenstein. Solo contro tutti, lui. Noi, viceversa, tutti per uno. Un altro film. Il solito.

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